Il diritto di visita del genitore non collocatario non indica un diritto soggettivo autonomo rispetto al diritto alla relazione familiare, ma è piuttosto una modalità di concreto esercizio del diritto stesso, in quanto attribuisce al genitore non convivente con il minore uno spazio e un tempo nell’ambito del quale egli può continuare a svolgere la funzione parentale, con le connesse responsabilità, e assolvere così alle funzioni di cura, educazione ed istruzione, stabilite dalla legge.” Questa quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza n. 9442 pubblicata il 9 aprile 2024 che ha respinto il ricorso di una mamma che si opponeva al pernottamento del figlio epilettico di 10 anni presso il padre.
Secondo gli Ermellini, infatti, i giudici della Corte d’Appello di Veneziani, in parziale accoglimento del reclamo materno, avevano giustamente previsto l’introduzione con gradualità dei pernottamenti
del minore presso il padre, e cioè da quando, secondo la cartella clinica, l’epilessia sarà in fase di regresso, ritenendo non consigliabile al momento inserire elementi di novità nella sua routine in quanto potenzialmente stressanti.
Dopo tutto erano anni che il padre aspettava di poter avere il figlio anche durante la notte e, compiuti i 10 anni, l’uomo pensava fosse giunto il momento per chiedere al Tribunale di Verona, la modifica delle condizioni di divorzio sia in punto diritto di visita – con l’elisione delle restrizioni inerenti il pernottamento adottate in sede di separazione e confermate in divorzio in ragione delle condizioni di salute del minore (epilessia), sia in punto riduzione del contributo dovuto per il mantenimento del figlio.
Espletata una Consulenza Tecnica d’Ufficio, il Tribunale di Verona accoglieva il ricorso, ampliando il diritto di visita del padre inserendo i pernottamenti e riducendo il contributo al mantenimento del figlio. La madre proponeva reclamo, affermando che il padre era inadeguato alle funzioni di cura del figlio epilettico e la Corte, in parziale accoglimento delle domande materne, riformava la decisione emessa in primo grado prevedendo una gradualità e posticipando l’inizio dei pernottamenti a far data dal mese di luglio 2024, cioè da quando, secondo la cartella clinica, la sua patologia dovrebbe essere in fase di regresso.
Avverso tale decreto, la madre del minore proponeva ricorso per cassazione che però veniva respinto con la decisione oggi in commento che mettendo al centro sia l’interesse del minore alla conservazione della relazione familiare, sia l’esigenza del minore di non subire un brusco repentino cambiamento della sua routine ha ribadito due importanti orientamenti: il primo in rito ed il secondo nel merito.
Con questa pronuncia, infatti, gli Ermellini, richiamate le ultime decisioni emesse sul punto (Cass n. 332 del 05/01/2024 e Cass n. 32013 del 17/11/2023), hanno ribadito l’ammissibilità del ricorso materno avverso il provvedimento giudiziale emesso a conclusione di un giudizio che riguardava il diritto di visita ed i tempi di permanenza del figlio minori, pur essendo un provvedimento privo di definitività e decisorietà, nella misura in cui il diniego si risolva nella negazione della tutela giurisdizionale ad un diritto fondamentale, quello alla vita familiare, che trova riconoscimento nell’art 8 CEDU.
Il diritto alla vita familiare, è infatti suscettibile di essere leso da quelle statuizioni che, in materia di frequentazione e visita del minore, sono a tal punto limitative e in contrasto con il tipo di affidamento scelto da violare il diritto alla bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio tale da garantire al medesimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione e istruzione della prole il cui rispetto deve essere sempre assicurato nell’interesse del minore.
Portando avanti tale riflessione, gli Ermellini specificano che il “diritto di visita” non indica un diritto soggettivo autonomo rispetto al diritto alla relazione familiare, ma è piuttosto una modalità di concreto esercizio del diritto stesso, in quanto attribuisce al genitore non convivente con il minore uno spazio e un tempo nell’ambito del quale egli può continuare a svolgere la funzione parentale, con le connesse responsabilità, e assolvere così alle funzioni di cura, educazione ed istruzione, stabilite dalla legge. Si tratta quindi di un tempo più o meno esteso, ma comunque qualificato, perché deve ricomprendere momenti di vita del minore in cui si possano effettivamente svolgere le funzioni genitoriali sotto ogni aspetto, segnatamente l’accudimento e l’educazione, condividendone la vita quotidiana e non solo il tempo della “visita” o dello svago ad essa eventualmente connesso.
La pari partecipazione dei genitori alla vita del minore si concretizza non per il tramite di una meccanica suddivisione in parti uguali dei tempi di permanenza, ma in chiave funzionale, organizzando quello del minore in modo da consentire a entrambi i genitori di partecipare al suo sviluppo e alla sua formazione e di consolidare con lui un’autentica ed effettiva relazione familiare.
La suddivisione dei tempi di permanenza presso ciascun genitore deve garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenendo conto anche del suo diritto ad una significativa relazione con entrambi i genitori e il diritto di questi ultimi di esplicare, nella relazione con i figli, il proprio ruolo educativo.
Di conseguenza, pur se l’esigenza del minore di avere una stabile organizzazione di vita, di mantenere le sue abitudini e l’ambiente domestico che gli è consueto può comportare una suddivisione dei tempi non paritaria, lo spazio temporale della frequentazione con il genitore non convivente – salvo che quest’ultimo non sia totalmente inadeguato alla funzione – non può essere eccessivamente compresso e privato del tutto di momenti significativi (i pasti comuni, i pernottamenti) poiché la relazione con il minore potrebbe risultare compromessa.
Inoltre, deve considerarsi che l’art 337-ter c.c. nell’enunciare il diritto del minore di mantenere, in caso di separazione dei genitori, un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi, pone l’accento sulla continuità del rapporto, intesa come caratteristica della relazione; pertanto possono giustificarsi, in casi particolari e ove risponda all’interesse del minore, sporadiche e temporanee limitazioni alla frequentazione tra genitore e figlio, ma non, di regola, la sua prolungata interruzione o la sua riduzione a tempi non significativi.
La relazione padre-figlio necessita quindi di contatti periodici e adeguati tra i genitori ed i figli, sì che non si lasci trascorrere il tempo inutilmente, senza cioè che questi contatti possano aver luogo perché la rottura del contatto con un bambino molto piccolo può portare a una sempre maggiore alterazione della sua relazione con il genitore. Il decorso del tempo senza che vi sia la possibilità di contatto toglie al minore ed al suo genitore, e al reciproco rapporto interpersonale di cura, affetto, costruzione dell’identità personale e familiare, “pezzi di vita” che non consentono alcuna restitutio in pristinum poiché ciò che è andato perduto è difficilmente recuperabile.